[Articolo su Público.es, Esther Vivas, 04/05/2014. Traduzione dallo spagnolo di Martina Marsili]
Anche se non sembra, mangiamo petrolio.
L’attuale modello di produzione, distribuzione e consumo alimentare è
dipendente dall’ “oro nero”. Senza petrolio, non potremmo mangiare come
siamo abituati a fare. In uno scenario in cui sarà sempre più difficile e
più costoso estrarre petrolio, come faremo quindi a nutrirci?
Sebbene la rivoluzione verde abbia insistito sull’aumento della produzione alimentare per eliminare di conseguenza la fame, la realtà è stata ben diversa. La produzione per ettaro è effettivamente cresciuta e secondo i dati della FAO, tra gli anni ‘70 e ‘90, il cibo totale pro capite a livello mondiale è aumentato dell’11%. Tuttavia da questo non è derivata una vera e propria diminuzione della fame, come segnala Jorge Riechmann nel suo libro “Cuidar la T(tierra)”, poiché il numero di persone ridotte alla fame sul pianeta nello stesso periodo (esclusa la Cina, la cui politica agricola era governata da altri parametri) è aumentato anch’esso dell’11%, passando da 536 a 597 milioni.
Inoltre, la rivoluzione verde ha avuto
conseguenze molto negative a lungo termine sia per i piccoli e medi
imprenditori agricoli che per la sicurezza alimentare. In particolare,
ha aumentato il potere delle aziende agro-alimentari lungo tutta la
filiera, ha causato la perdita del 90% dell’agrodiversità e della
biodiversità, ha massicciamente ridotto il livello freatico, ha causato
l’aumento della salinità e dell’erosione del suolo, ha sfollato milioni
di agricoltori dalle campagne e li ha diretti verso le baraccopoli, ha
smantellato i sistemi agricoli tradizionali e ci ha reso
“petrolio-dipendenti”.
Un’agricoltura “drogata”
L’introduzione su larga scala
delle macchine agricole è stata una delle prime rivoluzioni. Negli Stati
Uniti, per esempio, nel 1850, come indicato nel rapporto Food, Energy and Society, la
trazione animale era la principale fonte di energia nelle campagne e
rappresentava il 53% del totale, seguita dalla forza umana con il 13%.
Cento anni più tardi, nel 1950, con l’introduzione di macchinari a
combustibile fossile, le due energie del passato rappresentavano solo
l’1%. La dipendenza da macchinari agricoli (trattori, mietitrebbie,
camion…) è enorme, soprattutto nelle grandi piantagioni e nelle
monocolture. E’ a partire dalla produzione che l’agricoltura è
“incatenata” al petrolio.
L’attuale sistema agricolo, con la
coltivazione di cibo in grandi serre che prescindono dalla stagionalità
e dal clima, comporta la necessità sia di derivati del petrolio che di
un elevato consumo energetico. Pompe, contenitori, tubi imbottiti, reti,
tetti e teli, tutto è di plastica. La Spagna, secondo i dati del Ministero dell’Agricoltura e dell’Ambiente, è
il primo paese per estensione della coltivazione con uso di materie
plastiche nell’Europa Mediterranea, con 66.000 ettari coltivati, la
maggior parte in Andalusia, e più precisamente ad Almeria; seguono a una
certa distanza Murcia e le Canarie. E cosa si fa con tanta plastica una
volta che non serve più?
L’uso intensivo di fertilizzanti
chimici e pesticidi è un ulteriore esempio della dipendenza dal petrolio
del modello agricolo. Secondo il rapporto Eating oil: food supply in a changing climate,
la commercializzazione di fertilizzanti e pesticidi è aumentata
rispettivamente del 18% e del 160 %, tra il 1980 e il 1998. Il sistema
agricolo dominante ha bisogno di alte dosi di fertilizzanti a base di
petrolio e gas naturale, come ammoniaca, urea, ecc, che sostituiscono i
nutrienti del terreno. Le multinazionali petrolifere come Repsol, Exxon
Mobile, Shell e Petrobras hanno nel loro portafoglio investimenti nella
produzione e nella commercializzazione di fertilizzanti agricoli.
I pesticidi chimici sintetici sono
un’altra importante dimostrazione di questa dipendenza dai combustibili
fossili. La rivoluzione verde, come abbiamo analizzato, ha diffuso l’uso
di pesticidi chimici e, di conseguenza, la necessità del petrolio per
fabbricarli. Per non parlare poi dell’impatto ambientale che comporta
l’uso di questi agrotossici, dell’inquinamento e dell’esaurimento del
terreno e delle acque, e delle conseguenze sulla salute di agricoltori e
consumatori.
Alimenti viaggiatori
Il petrolio è necessario anche per
i lunghi viaggi che trasportano gli alimenti dal luogo dove vengono
coltivati a quello dove vengono consumati. Si stima che il cibo
percorra in media circa 5000 chilometri dal campo alla tavola, secondo un rapporto di Amici della Terra, con
conseguente utilizzo di idrocarburi e aumento dell’inquinamento. Questi
“alimenti viaggiatori”, secondo il rapporto, generano quasi 5 milioni
di tonnellate di CO2 all’anno, contribuendo al peggioramento del
cambiamento climatico.
La globalizzazione alimentare, nella sua
corsa per ottenere il massimo beneficio, trasferisce la produzione
alimentare, così come ha fatto con tanti altri settori dell’economia
produttiva. Da un lato, produce su larga scala nei paesi del Sud del
mondo, approfittando di condizioni di lavoro precarie e di una
legislazione ambientale inesistente, vendendo poi qui le sue merci a
prezzi competitivi. Dall’altro lato, produce nel Nord, grazie alle
sovvenzioni agricole nelle mani delle grandi imprese, commercializzando
poi tali prodotti dall’altra parte del pianeta, vendendo sotto costo e
facendo concorrenza sleale alla produzione autoctona. Qui risiede la
ragione dell’esistenza degli alimenti chilometrici: massimo vantaggio
per pochi; massima precarietà, povertà e inquinamento ambientale per
tutti gli altri.
Nel 2007 sono state importate in
Spagna oltre 29 milioni di tonnellate di cibo, il 50% in più rispetto al
1995. Tre quarti erano cereali, preparati a base di cereali e mangimi
per l’alimentazione zootecnica, provenienti soprattutto da Europa e
America centrale e meridionale, come indicato nel rapporto Alimenti chilometrici. Anche
i cibi tipici che consumiamo, come ceci o vino, provengono da migliaia
di chilometri di distanza. L’87% dei fagioli che mangiamo qui provengono
dal Messico, la loro coltivazione in Spagna è caduta a picco. Che senso
ha il traffico internazionale di alimenti da un punto di vista sociale e
ambientale? Nessuno.
Secondo il rapporto Eating oil: food supply in a changing climate,
un tipico pasto domenicale in Gran Bretagna con patate italiane, carote
del Sud Africa, fagiolini Tailandesi, carni bovine provenienti
dall’Australia, broccoli del Guatemala, fragole della California e
mirtilli della Nuova Zelanda come dessert genera, a causa del trasporto,
650 volte più gas serra rispetto a quelli che verrebbero emessi se quel
cibo fosse coltivato e comprato localmente. Il numero totale di
chilometri che l’insieme di questi “alimenti viaggiatori” compie dal
campo alla tavola è di 81 mila, l’equivalente di due giri completi del
pianeta Terra. E’ irrazionale se si considera che molti di questi
prodotti sono coltivati anche localmente. La Gran Bretagna importa
grandi quantità di latte, carne di maiale, agnello e altri alimenti di
base, nonostante ne esporti altrettante quantità, e lo stesso accade qui
in Spagna.
Mangiare plastica
Che cosa succede una volta che il
cibo raggiunge il supermercato? Plastica e ancora plastica, fatta con
derivati del petrolio. Così, troviamo l’imballaggio primario che
contiene il prodotto, un confezionamento secondario che mette in mostra
l’alimento sullo scaffale e alla fine lo portiamo a casa in una busta di
plastica. In Catalogna, ad esempio, dei 4 milioni di tonnellate di
rifiuti all’anno, i contenitori di plastica sono il 25%. I supermercati confezionano tutto, la vendita sfusa è ormai storia. Uno studio commissionato dall’Agenzia Catalana del Consumo evidenzia
che comprare in negozi di vicinato invece che in supermercati o in
centri commerciali genera il 69% in meno di rifiuti.
Un aneddoto personale illustra
bene questa tendenza. Quando ero piccola, a casa mia si comprava l’acqua
in grandi bottiglie di vetro di otto litri; oggi invece quasi tutta
l’acqua che viene venduta è imbottigliata in contenitori di plastica. Ed
è anche diventato di moda acquistare confezioni di sei bottiglie da un
litro e mezzo. Non c’è da stupirsi, quindi, che dei 260 milioni di
tonnellate di rifiuti di plastica nel mondo, la maggior parte di essi
sono contenitori di acqua o latte, come indicato dalla Fondazione Terra. La
Spagna, secondo tale fonte, è il produttore leader in Europa di
sacchetti di plastica usa e getta e ne è il terzo consumatore. Si stima
che la durata media dell’utilizzo di un sacchetto di plastica è di 12
minuti, ma la sua decomposizione può richiedere 400 anni. Traete voi le
conclusioni.
Viviamo in un mondo di plastica, come brillantemente ha illustrato l’austriaco Werner Boote nel suo film ‘Plastic Planet‘ nel
quale afferma: “La quantità di plastica che abbiamo prodotto
dall’inizio dell’era della plastica è abbastanza per avvolgere fino a
sei volte il pianeta con le buste”. Inoltre, che impatto ha la sua
onnipresenza nella vita quotidiana sulla nostra salute? Un testimone in
questo film dice: “Noi mangiamo e beviamo plastica”. E questo, come
denuncia il documentario, prima o poi lo sconteremo.
La grande distribuzione non ha
solo contribuito al largo consumo di grandi quantità di plastica, ma
anche all’uso della macchina per andare a fare la spesa. La
proliferazione di ipermercati, grandi magazzini e centri commerciali
nelle periferie della città obbliga a prendere l’auto per raggiungere
questi grandi centri. Se prendiamo l’esempio della Gran Bretagna, come
indicato nel rapporto Eating oil: food suply in a changing climate, tra
gli anni 1985/86 e 1996/98 il numero di viaggi alla settimana a persona
in auto per fare acquisti è passato da 1,7 a 2,4. Anche la distanza
totale percorsa per persona è aumentata da 14 km a 22 km a settimana,
con un incremento del 57%. Più chilometri, più petrolio e più CO2 a
scapito anche del commercio locale. Se nel 1998 in Spagna esistevano
95.000 negozi, nel 2004 questa cifra era scesa a 25.000.
Cosa fare?
Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia, la
produzione di petrolio convenzionale ha raggiunto il picco nel 2006. In
un mondo in cui il petrolio scarseggia, cosa e come mangeremo? In primo
luogo, è necessario notare che più l’agricoltura è industriale,
intensiva, chilometrica e globalizzata più dipende dal petrolio. Al
contrario un sistema contadino, agroecologico, locale e stagionale
comporta meno dipendenza dai combustibili fossili. La conclusione credo
sia ovvia.
E 'urgente puntare su un modello di agricoltura antagonista al potere dominante, mettere al centro i bisogni della maggioranza e l'ecosistema. Questo non è un romantico ritorno al passato, ma l'urgenza di una cura per la terra e per garantire cibo per tutti. O scommettere sul cambiamento o quando non c'è altra scelta che cambiare, altri, come tante volte, farà affari con la nostra miseria. Non lasciare che la storia si ripeta.
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